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«Rogo» di Perumal Murugan

15 Gennaio 2025

Al nostro sguardo di uomini dell’Occidente l’India è apparsa attraverso il Novecento come una terra ricca di fascino per la sua storia e la sua cultura così come per la varietà estrema della sua natura, con le sue ampie pianure, le vette altissime e i corsi d’acqua maestosi. Un’attrazione che il subcontinente indiano non cessa di esercitare ancora in questo secolo, sebbene non si possano non rilevare il divaricarsi sempre crescente della distanza tra ricchi e poveri, tra classi abbienti e strati modesti della popolazione: espressione di contrasti sociali a volte radicali, acuìti dalla rapidità della crescita tecnologica che rendono questo Paese tra i più saldi protagonisti dell’implementazione informatica a sconto di una persistente arretratezza in particolare nelle zone rurali.

Perumal Murugan, nato da genitori contadini nel 1966 nel sud dell’India, è oggi uno degli scrittori più noti della letteratura contemporanea in lingua tamil. L’ultimo romanzo tradotto in italiano, Rogo, grazie alla intelligente proposta editoriale di Utopia, consente di entrare nelle pieghe di quell’India nascosta e rurale, ancora ferocemente e orgogliosamente legata alle tradizioni e alla fondamentale differenza tra caste. Il romanzo ruota attorno alle figure dei due protagonisti, Saroja e Kumaresan, novelli sposi, appunto, di due caste differenti, il cui desiderio di autonomia e di felicità si scontra irrevocabilmente con il muro di una struttura sociale inscalfibile. I due ragazzi, dopo aver celebrato le nozze consacrandole a un amore sincero e reciproco ma senza l’assenso delle rispettive famiglie, si illudono di poter essere accolti nel paese di lui, dove decidono di fare ritorno e, auspicabilmente, trapiantare la loro esistenza. Saroja viene dalla città, non è conosciuta da nessuno e subito la sua pelle chiara e la poca abilità nei lavori manuali la respingono ai margini. La prima a non accettare la situazione e anzi a opporsi a qualsiasi forma di comunicazione e intesa è Sirayi, la madre dello sposo, che piuttosto diffama la giovane presso i suoi compaesani. Monta così una diffidenza che diventa malcontento, il malcontento si fa ostilità, l’ostilità diventa violenza. I due giovani vengono banditi dal villaggio e la storia si conclude tragicamente, come il titolo del romanzo lascia presagire.

Murugan tocca i nervi scoperti della società indiana e non a caso i suoi scritti hanno incontrato l’aperta disapprovazione di gruppi religiosi e di forze politiche, quando non sono stati addirittura accusati di blasfemia. Tra i temi di questo romanzo che si restituiscono al lettore con maggiore forza d’impatto c’è, anzitutto, la questione della lingua, usata dal contesto prevaricatore del paese per giudicare, stravolgendone il senso, ogni parola di Saroja, costringendola così al silenzio. L’allontanamento dell’altro, del diverso, agisce in primo luogo sul piano comunicativo, impedendo ogni forma di rapporto e condivisione. In secondo luogo, il fatto di narrare la vicenda dal punto di vista di Saroja restituisce piena fedeltà al dettato intimo di questa ragazza, di cui il lettore può considerare e pesare le paure, i timori, ma anche il desiderio di partecipazione e di apertura alla vita. In questo senso, il romanzo di Murugan appare come un inno alla femminilità, la cui fragilità è l’altra faccia della forza interiore e di una speranza robusta, sapiente, che non vuole cedere al sopruso anche quando questo appare in tutta la sua spietata prepotenza.