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«Goodbye Hotel» di Michael Bible

03 Settembre 2025

In Goodbye Hotel (Adelphi, 2025) Michael Bible obbliga il lettore ad una seduta di cartomanzia, e a scoprire con la solita prosa, insieme biblica e noir, ecoica e sospensiva, le carte illustrate di un mazzo che, per chi ha letto anche L’ultima cosa bella sulla faccia della terra (Adelphi, 2023), è fin troppo conosciuto.

Nella prima carta estratta è ritratta Harmony, una cittadina fittizia del North Carolina, stato nel quale l’autore stesso è nato e cresciuto, che raggruma tutti i cliché delle cittadine del sud – di cui fu abile cantrice già McCullers, citata da Bible in apertura di Empire of Light (Melville House, 2018), ancora inedito in Italia. Dalla città svettano solo le cupole delle grandi chiese battiste, gli edifici più estesi sono le fabbriche di tabacco abbandonate, e, se la si osserva bene, nella carta i cittadini che attraversano le strade, che abitano le case, hanno proprio quella faccia, quella apatica che ha chi desidera «disperatamente qualcosa di meglio». Harmony si affaccia su un lago, sulla sua costa si distendono le case dei ricchi, sulle sue acque si riflettono tramonti, luci da festa, facce imberbi di adolescenti.

Ma questa carta, così, ci dice ben poco, e allora la cartomante ne gira un’altra: nella stessa scena una vecchia Jeep Cherokee rossa, «due tartarughe, due innamorati e un uomo con un completo di seersucker» disteso, sembra in fin di vita, se non morto. I poteri della divinazione arrivano fino a tanto, le interpretazioni di questa carta cambieranno molteplici volte, insegnandoci che la verità in Bible può mutare dopo poche pagine, che non è unica e sola, ma prismatica, e che dipende necessariamente dal punto di vista con la quale la si guarda. All’inizio François, uno dei due innamorati, ne ha il controllo totale mentre la riscrive da un hotel di Manhattan, lo stesso che dà il nome al romanzo: da lui caviamo solo una informazione certa, che l’uomo con il completo di seersucker è morto ed è stato lui ad investirlo, uccidendolo. Le prime due carte erano quasi scontate: un contesto cittadino e lacustre, asfissiante e monotono, sconvolto da un lutto, mai volontario, causato da uno dei protagonisti – immancabilmente uomo e adolescente, o comunque in quell’età al confine della chiara consapevolezza della differenza tra giusto e sbagliato, quanto basta per simpatizzare nonostante l’atto omicida – al quale Bible cede la parola per restituire alla Storia, o più precisamente al Tempo, la sua versione dei fatti. Era così ne L’ultima cosa bella, e anche in Empire of Light.

Ed è girando la terza carta che il Tempo prende per la prima volta forma: una tartaruga gigante e secolare, la più anziana al mondo, Lazarus. Con lei il romanzo si allunga e allarga, diventa antichissimo e corale, confluendo direttamente nella tradizione dei più famosi romanzieri americani, da Faulkner a Dos Passos: grazie a Lazarus, Bible può tornare al 1881, quando per primo James vestì il completo in tessuto di cotone (“seersucker”, appunto), e poi seguirono Kirk, Simon, e tanti altri, fino a Thomas e a François, l’ultimo Seersucker; dopo di loro Bible segue le storie di due guardiani, Walt e Sandy, assoldati da un miliardario che ha paura di invecchiare e morire – che tanto, nella sua ossessione per il tempo che inesorabilmente ed irrecuperabilmente scorre, ci ricorda l’autore – per tenere d’occhio Lazarus; a questi ultimi però la tartaruga sfugge, incontrando e sconvolgendo la vita di Jill e Quiet, che per il lettore potevano essere solo due spacciatori, ma per Bible dovevano essere molto di più. Tutte queste storie, i sogni di ogni comparsa, l’autore li racconta con lapidaria franchezza ed estrema dolcezza, come se anche le loro vite non fossero altro che mazzi di tarocchi nelle mani del Tempo, che si diverte a mescolarne le carte. Dell’amore, del bisogno di sentirlo e comunicarlo, Bible aveva già parlato ne L’ultima cosa bella sulla faccia della terra, quando al protagonista, il giovanissimo condannato a morte Iggy, fa proferire queste ultime parole: «Presto sarò polvere sotto una lapide […]. Prima che succeda volevo mettere per iscritto certe cose che ho amato e ricordarvi che, per adesso, resisto». Anche in lui Bible sembra lasciare un pezzo di sé: e come il pittore urbinate guarda attraverso la tela della sua Scuola d’Atene per vedere se l’osservatore ricambia il suo sguardo, se è tanto acuto da scovarlo, così il nostro autore lascia fra le pagine sé stesso come un puzzle da ricostruire, sfidando il lettore a completarlo.

Carta numero quattro: una piscina avvolta dalle fiamme, dentro una ragazza dai capelli rossicci circondata da tartarughe, tra loro c’è anche Lazarus. È Eleanor, che incastra nel mosaico di ricordi, reali e fittizi, legati alla notte dell’incidente su Mulberry Road l’ultimo fondamentale tassello; lei è la sola a sapere cosa avvenne dopo di sé stessa, l’unica a poterci raccontare da dove viene Little Lazarus, la tartaruga grande «quanto una tazzina di caffè». Sembra tutt’altro che piccola nell’ultima carta: come Lazarus, la sua giovane controfigura permette all’autore di andare oltre il suo tempo, questa volta però in avanti, in un’epoca in cui la Terra o brucia o è terribilmente alluvionata.

A ciascuna carta un capitolo: la cittadina di Harmony nell’«Ouverture», «François», «Lazarus», «Eleanor», «Little Lazarus» non sono altro che strumenti nella mano dell’ormai abilissimo scrittore-cartomante. Chiedersi quale possa essere il motore degli ingranaggi della macchina narrativa di Bible significa chiedersi perché ci si sottopone ad una seduta di cartomanzia: compiacersi per poco nell’illusione di poter controllare il Tempo, scrutare nella sua imprevedibilità, prima che il fuoco – elemento distruttivo, ma anche redentivo, ricorrente in Bible – spazzi via tutto e, come gomma su una pagina scritta a matita, permetta di riscrivere tutto da capo. Le ultime parole, vere o false che siano, saranno le uniche a contare.