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«Stròlegh» e «Teater»: tornano per Einaudi i due grandi poemi di Franco Loi

11 Giugno 2025
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«Sí, seri estrus, e te dirú, Nuénta, / sun schittâ giò a la gran piassa verta, / e l’era l’aria, o l’era la granisa / di tilli al Leuncavall che grapelaven / d’un duls smuccius e d’un umbrià d’arbrisa»[1]: con la forza dirompente di questi versi, che seguono il ritmo incalzante di una danza o di una camminata metafisica per le strade del Casoretto di Milano si apre Stròlegh, il celebre poema di Franco Loi che uscì per la “bianca” Einaudi nel 1975, con una densa introduzione dell’amico e lettore Franco Fortini.

Ora va a Einaudi il merito di averne riproposto la ristampa in un unico volume che accoglie anche Teater (Einaudi 1978), permettendo così al lettore di avvicinarsi a due opere già da tempo fuori commercio e ormai rarità bibliografiche.

Si tratta in pratica di una ristampa anastatica dei due volumi (sarebbe stato anche interessante allestire un’edizione critica, specie di Stròlegh, tenendo conto delle numerose correzioni apposte da Loi sulla sua copia personale e relative in particolare alla versione italiana in calce ai testi), ma l’occasione è comunque preziosa per riavvicinarsi a due libri fondamentali di Loi, introdotti ora da una prefazione di Giancarlo Consonni che sottolinea come «la poesia prorompente e fluviale del primo Loi» sia «un aprirsi di cateratte dopo un lungo accumulo»[2].

Estate 1970: Loi si immerge infatti in un totale stream of consciousness che lo porterà a scrivere in breve tempo un gran numero di testi, inaugurando una fertilissima stagione di poesia: «improvvisamente, nel giugno-luglio del 1970 entrai in una specie di euforia dello scrivere […] Iniziai Stròlegh e fui travolto di nuovo dal bisogno di voler dire. Lavoravo, cioè recitavo per quattordici ore al giorno la mia vita. Cominciavo il mattino alle 7 e finivo la sera tra le 8 e le 9 […] Una specie di crogiolo di passioni, emozioni, sensazioni, pensieri da cui uscivano le parole. Cominciai per scrivere una poesia – tale era infatti l’intenzione – e ne venne fuori un poema in 42 canti»[3].

Quasi sotto dettatura, scriba in ascolto della voce di un Altro – come Loi amava spesso ripetere con le parole di Purg. XXIV: «I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando» – il poeta-astrologo (stròlegh in milanese) ripercorre il fiume prodigioso della memoria in un susseguirsi vorticoso di ricordi, premonizioni, sogni e visioni. È al poeta veneto Giacomo Noventa, apparsogli misteriosamente in sogno anni prima, che lo scrittore si rivolge nell’incipit di Stròlegh («te dirú, Nuénta»), rievocando una camminata notturna per le strade del Casoretto avvenuta nel 1957 in cui lo stesso Loi fu protagonista di una sorta di dantesco viaggio spirituale: «come se un passo entrasse e, un altro passo, / un mondo che mi chiama, e che mi strappa lontano, / una vita mia diversa mi mostrasse, / e un passo è già un ricordo, e la mia ansia, / di colpo, è via Teodosio, e io sono solo, / son solo e non sono più io, sono di quel mondo / in cui la memoria si confonde alla visione…»[4].

Profezie e oscure premonizioni, come la scena del padre caricato in ambulanza e ricoverato in ospedale – evento che si verificherà con la stessa esattezza di particolari due anni dopo – si mescolano a duri ricordi di guerra, come quello della fucilazione dei partigiani in Piazzale Loreto (tra cui anche Libero, padre dello storico amico di Loi Sergio Temolo): «Fratelli, / da un camion in piazza scaraventati, / siete là che fate paura e fate vergogna, / siete là, dove sembra morta la città, / vi hanno pestati e trascinati come sacchi, / vi hanno spaccati a colpi di scure come tronchi»[5].

Con Teater, “divertimento per tre parti d’amore”, ci troviamo di fronte invece a un divertissement in cui il soggetto guarda sé stesso «recitare» con il «sorriso di chi si guarda vivere», come spiega Loi nelle note introduttive. In questo poema fantastico ambientato nel pronao di Sant’Ambrogio assistiamo alla vicenda – ricca di significati metaforici e risvolti ironici – del duello tra un soldato, innamorato di una donna che vive su un’isola deserta, e il suo rivale musicista. Ma anche nel teatro rivivono le voci della storia e tornano i ricordi di quella guerra che aveva sconvolto la città di Milano: «Milano degli incendi, Milano pioggia di spezzoni, / la morte che consuma raspando la scala, / picchia alla porta, si nasconde a noi…»[6]. Segue a Teater il Sogn d’attur, “interpretazione di un saggio di recitazione”, altro divertissement che vede protagonisti un attore stanco del proprio mestiere, un borghese con il «genio della recitazione» e un poeta, intruso che compare in teatro con un «espediente da circo». Occasione ancora una volta per riflettere, attraverso l’espediente teatrale, sulla figura del poeta che, come il popolo, sa avvicinarsi maggiormente alla verità delle cose: «Amici, fratelli, cos’abbiamo fatto? diteci cos’abbiamo fatto? / Siete macellai? Siete uomini? Dove è la terra…»[7].

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  1. F. Loi, Stròlegh. Teater, prefazione di Giancarlo Consonni, Einaudi, 2024, p. [5]: «Sí, ero estroso, e ti dirò, Noventa, / sono saltato di scatto giù, alla gran piazza aperta, / e era l’aria, o era la graniglia ghiaccia / dei tigli che, verso via Leoncavallo, penzolavano a grappoli / di un dolce smoccioloso e di un ombreggiare di fogliami mossi dalla brezza».
  2. Ivi, p. [v].
  3. F. Loi, Da bambino il cielo. Autobiografia, a cura di Mauro Raimondi, Garzanti, 2020, pp. 259-260.
  4. F. Loi, Stròlegh. Teater, op. cit., p. 35: «cume se ’n pass l’entràss e, ’n òlter pass, / un mund che mí me ciama, e che me streppa, / ’na vita mia diversa me mustràss, / e un pass l’è già ’n regòrd, e la mia ansia, / de culp, l’è via Teodosio, e mí sun sul, / sun sul e sun pü mí, sun de quel mund / due la memoria entra a la visiun…».
  5. Ivi, pp. 18-19: «Fradèj, / da un camiun in piassa stravaccâ, / sí là, in due par morta la citâ, / v’àn saccanâ, v’àn següsâ ’mi gabb».
  6. Ivi, p. 172: «Milan d’incendia, Milan piöv de spessun, / la mort che sgarattula la scara, / picca la porta, se nascund de nüm…».
  7. Ivi, p. 263: «Amis, fradèj, s’èm fâ? disígh, s’èm fâ? / Sî macellar? Sî òmm? Duè la tèra…».