«Un atto assurdo di speranza»: libri di poesia nel Fondo Gilberti
Perché gli assassini temono i poeti? Non eri un combattente. Non portavi armi. Scrivevi parole su carta. […] In tempi di angoscia, quando il mondo è avvolto dalla crudeltà e dalla sofferenza, quando le vite sono in bilico sull’orlo dell’abisso, la poesia è il triste lamento degli oppressi. Ci fa percepire la sofferenza. È intuitiva. Cattura il tumulto di emozioni complesse quando il mondo si disintegra. Crea, nella sua bellezza, un significato salvifico a partire dalla disperazione. È un atto assurdo di speranza, un atto di sfida, una resistenza, con la sua erudizione e sensibilità, che irride chi ti deumanizza[1].
Queste le parole dello scrittore e reporter americano Chris Hedges in una lettera dedicata al poeta palestinese Refaat Alareer morto nel dicembre 2023 a seguito di un attacco aereo avvenuto nel nord di Gaza. Se ancora oggi in molti si domandano quale sia, o se ci sia, un senso nello scrivere poesie, rispondere a questa domanda appare ancora più complesso se a comporre versi sono persone che lottano ogni giorno per sopravvivere. Eppure, scrivere è un modo per mantenere intatta la propria umanità e cercare parole che possano aiutare ad aggrapparsi ad un ultimo atto di resistenza, nella speranza che, almeno quelle parole, possano sopravvivere, intatte, nel tempo. Fazi Editore ha recentemente pubblicato una straordinaria raccolta: Il loro grido è la mia voce che racchiude trentadue poesie in gran parte scritte a Gaza dopo il 7 ottobre 2023.
Anche nel Fondo Gilberto Gilberti, conoscitore sensibile e profondo del mondo mediorientale, alla costante ricerca di fonti che potessero aiutare a capire e ad approfondire una questione scomoda e difficile, sono custoditi numerosi volumi che guardano, testimoniano e documentano da innumerevoli punti di vista la questione palestinese. Dopo aver guardato a quella “fetta di mondo” attraverso libri di viaggi, di storia e geopolitica, si propone qui una breve panoramica sui libri di poesia fino ad ora rinvenuti nel fondo in corso di catalogazione.

Palestina. Poesie è il titolo di una raccolta pubblicata dalla casa editrice brasiliana Ila Palma nel 1982. Nella prefazione all’opera, Biancamaria Scarcia Amoretti motiva il significato essenziale di tale scelta: «rivendicare al popolo palestinese una sua identità specifica che non contraddice, ma anzi si integra nel contesto del mondo arabo di cui esso fa parte»[2]. Risulta chiaro, prosegue la curatrice che «quando si parla del popolo palestinese e della sua specificità, le implicazioni son ben diverse da quelle che riguardano ogni altro caso, perché, affermando la sua esistenza come popolo e la sua capacità di esprimersi in quanto tale, si ammette, da un lato, l’anomalia della sorte che gli è toccata, dall’altro la necessità di ovviarvi in ogni modo e a tutti i livelli possibili; anche quello, forse secondario, di far conoscere la loro cultura»[3].
I segni dell’identità culturale palestinese si sarebbero potuti cercare a ritroso nella storia passata, ma in quest’opera si è preferita una scelta più immediata, meno costruita, offrendo al pubblico poesie allora (1982) contemporanee. L’intento era quello di far parlare gli stessi palestinesi presentandoli attraverso la voce di molteplici traduttori, questo perché essi, partendo da esperienze culturali e posizioni politiche profondamente diverse, potessero dare quell’obiettività che è fondamento indispensabile di una corretta informazione.
Si spera così che, con la parola – a volte più efficace degli stessi fatti – i palestinesi esprimano i loro ideali, le aspirazioni che animano la loro concezione della lotta, la loro volontà di ottenere quanto è loro dovuto, senza peraltro violare dritti altrui, nella persuasione, forse ingenua, che chi ha conosciuto la sofferenza non può desiderare per altri il dolore, nella consapevolezza di combattere una battaglia giusta che, se li vede protagonisti e vittime, è una battaglia che riguarda non soltanto loro, nella misura in cui dal suo risultato dipende il destino dell’intera regione. E infine si spera che emerga il loro desiderio di pace, che è un poco il punto di partenza e di arrivo di un messaggio, qui espresso in poesia, altrove in forme diverse, ma che è sempre identico nella sostanza, per chi intende leggerlo in piena onestà di coscienza, al di fuori di ogni preconcetta opinione[4].
Delle poetesse e dei poeti Mahmud Darwish, Samih al-Qasim, Tawfiq Zayyad, Fadwa Tuqan, Mu’in Busaysu, Hanna Abu Hanna, Salim Jabran, Salma Khadra Jayyusi, Rashid Husayn, Mu’ Amamr Zughbi, Ha’il al-Thaqila, Jalal al-Din viene dapprima proposta una breve biografia in apertura del volume. Successivamente l’antologia si articola in una raccolta dei versi per sezione: “nostalgia della patria”; “la violenza subita” e la “Resistenza”. Il “canto” del singolo poeta diventa espressione di una più grande e potente voce che racconta il destino di un intero popolo. Si segnala la presenza di alcuni versi “anonimi” ciò avviene o per assenza di rivendicazione di paternità al momento di presentazione del testo, oppure, per un fenomeno diffuso tra i poeti militanti che, secondo un’antica consuetudine araba, improvvisano versi, facendo fruire quelle poesie come testi di canzoni.
Scrivi:
sono arabo
il numero della mia carta d’identità è cinquantamila
sono padre di otto figli
e il nono.. verrà dopo l’estate.
Ti fa arrabbiare questo?
Scrivi:
sono arabo
lavoro con i miei compagni di pena
in una cava
sono padre di otto figli
per loro strappo dalle rocce
i vestiti, il pane, i quaderni
e non vengo a mendicare alla tua porta
e non mi piego
davanti al pavimento lustro del tuo portone.
Ti fa arrabbiare questo?[5]
Prendi nota
sono arabo
carta di identità numero 50.000
bambini otto
un altro nascerà l’estate prossima.
Ti secca?
Prendi nota
sono arabo
taglio pietre alla cava
spacco pietre per i miei figli
per il pane, i vestiti, i libri
solo per loro
Non verrò mai a mendicare alla tua porta.
Ti secca?[6]
Questi ultimi versi sono di Mahmud Darwish (1941-2008), considerato il più eminente poeta della Palestina e uno dei più grandi poeti in lingua araba. Nato nel 1941 nel villaggio di Al-Birwa situato nell’alta Galilea, sette anni dopo, nel 1948, fu costretto ad abbandonare la sua terra in seguito alla costituzione dello Stato di Israele. Fuggì con la sua famiglia in Libano e provò poi a rientrare illegalmente un anno dopo in Palestina.

Nel corso della sua vita, fu più volte arrestato per la sua presenza illegale in Israele e per aver recitato poesie giudicate sovversive in pubblico. Pubblicò la sua prima raccolta di poesie, Uccelli senza ali, a diciannove anni nel 1960. L’opera che lo rese celebre, Foglie d’ulivo, fu pubblicata nel 1964. Le poesie di Darwish divennero famose perché capaci di raccontare la dolorosa condizione dell’esiliato lontano dalla propria terra.
Tra i libri ricevuti in donazione dalla Biblioteca della sede di Milano appartenuti a Gilberto Gilberti, compare la raccolta poetica La saggezza del condannato a morte (2022), un’edizione della casa editrice indipendente Emuse che prova ad assegnare un volto italiano alla poesia di Darwish. Come sottolineato nella prefazione da Paolo Branca, docente di Lingua e letteratura araba presso l’Università Cattolica, spesso capita che i popoli senza una terra (gli stessi ebrei nella diaspora ne hanno fatto esperienza) diano una grande importanza alla cultura e alla lingua come custodi dell’identità e archivio della memoria collettiva.
Abbiamo un Paese che è fatto di parole. E tu parla,
parla così che noi si sappia dove finisce il viaggio.
Fino al termine della sua esistenza, in una sorte di
testamento:
Allora riposa, in pace, se possibile riposa in pace nelle
tue parole[7].
La poesia di Darwish non è produzione monocorde, politicamente impegnata. È poesia autentica, pura espressione di umanità, nel significato più profondo del termine, cioè in quel sentimento di solidarietà verso l’altro che non si manifesta solo nella “fratellanza” palestinese, ma che si rivolge a tutti gli esseri umani, a tutti i volti delle tragedie umane, ed anche al volto di un “nemico”, come nel caso dei versi di Darwish per un’artista israeliana. La straordinarietà sta anche nella capacità di tracciare, con parole poetiche colme di grande verità, l’orrore della guerra, della morte e della distruzione. Una bellezza che non si percepisce nelle immagini evocate, ma nell’abilità poetica di dare voce autentica e profonda allo strazio interiore che si prova nella condizione dell’esule, del condannato a morte. Le parole di Darwish sono come pezzettini della sua anima in sofferenza che lui ti restituisce sul foglio attraverso figure di una realtà logorante.
Lo sguardo è di chi è perfettamente consapevole dell’epoca e del momento che sta vivendo, tanto da domandarsi: «mi chiedevo se taccuini e telecamere fossero stati testimoni di ciò che accadeva sulle mura asiatiche di Troia, Omero avrebbe scritto la stesa Odissea?»[8]. Resta, infine, l’assoluta convinzione del poeta: «viviamo come se la morte non ci colpisse. Noi che abbiamo il potere di ricordare possiamo renderci liberi»[9]. Come sottolineato dal prefatore, una menzione speciale va ai traduttori dei testi per la loro capacità di riuscire a rendere nella lingua italiana la musicalità allitterante della lingua araba. Impresa piuttosto ardua per due idiomi così profondamente diversi.
Queste sono solo le prime raccolte a carattere poetico rinvenute nel Fondo Gilberti, ora in corso di catalogazione. All’interno del vasto patrimonio librario della Biblioteca dell’Università Cattolica si segnala la presenza di un’antologia poetica in versi, edita nel 2007 per la bianca di Einaudi, che raccoglie la testimonianza di autori israeliani: «l’innaturale intrusione della morte come fatto politico (guerre, attentati) nella trama quotidiana degli eventi e dei rapporti umani è un tema spesso affrontato dal poeta israeliano[10]». L’antologia, a cura di Ariel Rathaus, critico letterario, docente e traduttore israeliano, aveva inteso documentare quelli che fino a quel momento (2007) erano stati i principali esiti della lirica scritta in Israele in ebraico, «lingua che è espressione della società e del popolo da cui lo Stato d’Israele è nato e in cui principalmente vi si produce cultura[11]».

Sospesa tra le suggestioni del canone biblico, che ne è il modello tradizionale, e il canto della realtà contemporanea anche laddove si fa ironico, sarcastico o derisorio, la poesia israeliana è più che mai espressione di un intero popolo. Abbandonati i primi toni epici che avevano accompagnato la costruzione di uno Stato, l’iniziale entusiasmo della rinascita nazionale ha lasciato posto all’esigenza di esprimere la sfaccettata complessità dell’anima israeliana contemporanea: «Tutta l’evoluzione della letteratura israeliana più recente è stata interpretata come un progressivo allontanamento da quelle posizioni di partenza, prima elaborando un sistema di comunicazione letteraria che lasciava spazio al soggettivo […], e poi sviluppando un pluralismo di stili e posizioni ideologiche»[12].
Rathaus ha raccolto in un’istantanea la lirica di Israele elaborata dagli anni Ottanta fino al Duemila, sebbene con qualche sconfinamento all’inizio degli anni Sessanta. Si possono trovare le voci di Yehuda Amichai, un combattente che «ha imparato a proprie spese le tragiche conseguenze dei conflitti fra gli uomini», e di Chaim Guri nei cui versi si esprime intatto l’amore per la sua terra: «Non sei bella, purtroppo, non sei bella. / Tu solo sei mia, / timorosa di ultime notizie, bisognosa di pietà divina» (Quest’afa).
Voci che manifestavano la coscienza nazionale e la critica verso la realtà politica e sociale, come i versi di Maya Bejerano, Meir Wieseltier, Yitzhak Laor, Rami Saàri; voci come quella di Shimon Adàf, l’autore più giovane dell’antologia, che in Ultimo canto di Orfeo testimonia le difficoltà dell’integrazione e la certezza di un tempo irrimediabilmente perduto: «Una parte di mondo in ogni caso / sarà sempre alle tue spalle». Voci che modulano i temi della nostalgia e dell’amore, dalla difficoltà e la tenerezza dei rapporti di coppia di Ori Bernstein («Due persone siedono davanti a una finestra / e cantano tra sé nella notte: / non hanno più bisogno dell’amore. / […] Ma ci sediamo ancora l’uno / accanto all’altra, gettiamo ancora un uguale sguardo», Segni), alla calda, quasi gastronomica, fisicità di Aharon Shabtai.
Non mancano voci femminili: di donne fragili, cantate dalla Rabikovitch; di donne che, dopo l’emancipazione, sono approdate al disincanto, come nei testi di Aghi Mishòl; di donne, infine, dedite a un’introspezione eccessiva, forse infruttuosa, come dice Rachel Chalfi: «Sono occupata sono occupata / sto cercando di fare il mio numero ma sono sempre / occupata / […] se anche Dio facesse il mio numero / sarei occupata» (Occupata).
Un’antologia che è come uno stimma, un pegno di coscienza. È impossibile infatti leggere questi testi senza vedere in filigrana le tragiche vicende della storia cadute sul popolo ebraico durante il Novecento. Questi poeti raccontano la consapevolezza che la poesia è più che mai l’espressione dell’amore per la loro terra e per le loro radici, anche quando l’amore fa gridare di dolore e disperazione. Un vestito in fiamme: è il poeta che arde[13].
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- A. Bocchinfuso, M. Soldaini, L. Tosti, Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza, Fazi Editore, 2025, p. 120.
- B. Scarcia Amoretti (presentazione), Palestina. Poesie, Ila Palma, 1981, p. 7.
- Ivi, p. 8.
- Ibidem.
- Ivi, p. 87.
- A. Bocchinfuso, M. Soldaini, L. Tosti, op. cit. p. 123. Il testo è presentato in doppia traduzione per coglierne le diverse sfumature di significato.
- M. Darwish, La saggezza del condannato a morte e altre poesie, Emuse, 2022, p. 6.
- Ivi, p. 8.
- Ibidem.
- A. Rathaus (a cura di), Poeti israeliani, Einaudi, 2007, dalla quarta di copertina.
- Ivi, p. xxi
- Ivi, pp. viii-ix.
- Cfr. la recensione di P. Senna al volume Poeti israeliani, in “Poesia. Mensile internazionale di cultura poetica”, 226, 2008, p. 69.