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Racconti e disegni dai lager nell’Archivio Gianfranco Bianchi a Milano

Le vittime della Shoah vengono ricordate con il Giorno della Memoria ogni 27 gennaio, ricorrenza della data in cui le truppe sovietiche liberarono il campo di concentramento di Auschwitz, rivelando al mondo la crudeltà del genocidio nazista. Una giornata per non dimenticare, quindi, perché la memoria è portatrice di giudizi e di valori, e aiuta ad orientarci nel presente e a scegliere le direzioni del futuro. La storia della Shoah è soprattutto una storia umana, parla di individui; non è solo il racconto di uno sterminio di massa, ma è la presa di coscienza che in quei luoghi di morte ci furono delle persone, degli uomini e delle donne, con nomi e cognomi regolarmente scritti all’anagrafe.

Alcune testimonianze riaffiorano anche dall’archivio personale di Gianfranco Bianchi (giornalista e docente di Storia del giornalismo scomparso nel 1992) conservato dall’Università Cattolica. Queste carte, inizialmente custodite nel Dipartimento di Storia moderna e contemporanea dell’Ateneo, sono ora depositate presso la Biblioteca della Sede di Milano, che ne sta curando la conservazione e l’inventariazione elettronica. Tra di esse sono presenti dolorosi ricordi di internati italiani che questo orrore lo attraversarono in prima persona. Si tratta dei cosiddetti “triangoli rossi”, simbolo degli uomini arrestati per “fermo protettivo” (Schutzhaft), pretesto utilizzato per imprigionare gli oppositori al nazionalsocialismo. I triangoli erano un simbolo di terrore nei campi di concentramento, e le SS se ne servivano per stigmatizzare i detenuti e seminare discordia tra i gruppi. Il numero identificativo cucito sulla divisa all’altezza del cuore – mentre i tatuaggi venivano eseguiti solo ad Auschwitz – e il triangolo sull’avambraccio erano tutto ciò che restava dell’identità del prigioniero, una volta varcata la soglia del campo di sterminio.

Il processo di spersonalizzazione voluto dai nazisti tendeva a spegnere il vigore e la determinazione nei prigionieri, e quindi ogni spirito di ribellione, fino alla perdita di ogni speranza e volontà di vivere.
Nonostante l’uscita di film brutalmente realistici sulla Shoah e la pubblicazione di documentari ripresi dagli stessi nazisti, nulla riesce a dare un’idea adeguata di come la dignità umana venisse calpestata più e più volte nei campi di concentramento. Tra le carte di Gianfranco Bianchi sono significative le testimonianze di alcuni sacerdoti italiani, internati anche loro tra i deportati politici, che fanno intuire la portata delle vessazioni a cui furono sottoposti i prigionieri:

L’accoglienza arriva a suon di calci e bestemmie. Una parola che le SS si scambiano sghignazzando mi agghiaccia il sangue: Krematorium. I forni crematori inceneriscono giornalmente centinaia di cadaveri. Qualcuno vi viene gettato ancora vivo. Impossibile sfuggire, vivi o morti, a quell’inumana distruzione. I nostri carnefici ci allineano sul piazzale del campo dove restiamo in piedi per tutta la notte. Niente acqua, niente cibo. […] lacerato il breviario, calpestate immagini sacre e ricordi pii. Un ufficiale delle SS adopera il mio cappello da prete come vaso da notte. Comincia il supplizio della visita. All’ordine di svestirci completamente, alcuni manigoldi mi strappano di dosso le vesti con furore. Non altrimenti i Giudei denudarono Gesù sul Golgota. (don Sante Bartolai)

La soluzione finale non investì soltanto gli ebrei e l’intento di annientarli: essa colpì anche i politici. […] Erano contrassegnati con un triangolo rosso, da una lettera che indicava la loro nazionalità e da un numero che, dal momento dell’ingresso nel campo sostituiva il loro nome. Non più uomini ma numeri […]. Tutto serviva a distruggere l’uomo: se l’uomo non veniva distrutto fisicamente, doveva essere distrutto come persona, non solo diventare un numero per ragioni organizzative, ma diventare una non-persona, un essere vivente che di umano aveva solo le sembianze e che doveva essere ridotto a poco a poco a un bruto o ad una cosa […].
Chi non è stato nei campi di sterminio tedeschi sa che vi si moriva di fame, di fatica, di dissenteria di tifo e di ogni altro morbo; a colpi di bastone o di pistola; fucilati o impiccati; assiderati o sbranati dai cani […] ma non sa che più orribile di ogni altra vi era la morte per disperazione, non sa che tal genere di morte fu inflitta con una tecnica che gli stessi fascisti nostrani più faziosi e seviziatori non avrebbero saputo ideare […]. Questo fu il capolavoro dei torturatori nazisti: la distruzione della speranza prima della morte della carne, come mezzo anzi, e il più scellerato per accelerare e provocare la morte fisica. (don Paolo Liggeri)

Sottrazione dell’identità, privazione della dignità, perdita di ogni speranza; uccisione dello spirito prima che del corpo. È questo che i nazisti fecero giorno per giorno per tutta la durata dell’Olocausto. È questo che è necessario ricordare, per non ripetere gli errori del passato, per sviluppare gli anticorpi necessari a riconoscere e combattere le moderne manifestazioni di discriminazione e per permettere ad ogni essere umano di scegliere, costruire e mantenere nel tempo la propria identità e la propria dignità.

Durante i lavori di riordino in corso, l’archivio personale di Gianfranco Bianchi ha inoltre svelato alcuni disegni (tra cui quelli presentati qui di seguito): restituiscono in modo vivido e diretto scene ritratte personalmente da internati che, pur nella drammaticità della prigionia che stavano subendo, non avevano smarrito l’amore per l’arte e la bellezza.