«Manda via gli operai dalle case dei poeti». Una lettera di Alda Merini a Franco Loi
«Sono nata il ventuno a primavera»[1]: così scriveva Alda Merini celebrando la sua nascita all’insegna della stagione dei fiori (lo stesso 21 marzo in cui l’Unesco, a partire dal 1999, ha istituito la giornata mondiale della poesia). La vita della poetessa ebbe inizio a Milano nel 1931, in viale Papiniano 57, da madre casalinga e padre assicuratore; la sua – come lei stessa ricorda – fu un’infanzia «apparentemente comune» ma, vista la sua acuta e precoce sensibilità, «ricca di toni a volte angosciosi e melanconici»[2]. Milano è stata dunque la sua città, in cui ha vissuto la sua intera esistenza, allontanandosi solo per brevi lassi di tempo, come gli anni della Seconda guerra mondiale, gli altalenanti periodi di internamento e il fugace trasferimento a Taranto negli anni Ottanta per seguire il suo secondo marito Michele Pierri.
Quella della Merini è una produzione letteraria vastissima che si snoda nell’arco di oltre 60 anni, e che gli studiosi dell’Università Cattolica possono scoprire e approfondire grazie alle numerose opere nel Catalogo d’Ateneo. Una poesia intitolata La vergine datata 15 novembre 1947 – quando Alda aveva quindi solo 16 anni – verrà poi inserita nella prima raccolta La presenza di Orfeo. Già questi precoci versi testimoniano una profondità di pensiero inconsueta per una ragazza di quella giovane età, ma che nel caso della poetessa sono prova della sua infinita sensibilità e inquietudine d’animo. Della sua naturale propensione alla poesia – da quello che si narra – non fu molto felice il padre Nemo; il quale arrivò addirittura a strappare una delle prime poesie scritte dalla figlia. La sua era la naturale preoccupazione di un genitore, consapevole della triste verità che «la poesia non dà il pane». Non riuscirono però quelle parole a fermare lo slancio lirico della giovane poetessa, che la portò nel 1947 a frequentare la casa di Giacinto Spagnoletti, dove ebbe modo di conoscere Maria Corti, Luciano Erba, David Maria Turoldo e altri intellettuali. Quegli anni portarono al suo esordio poetico: la pubblicazione nel 1950 all’interno della rivista “Paragone” di alcuni suoi componimenti.
È assai nota la sua lunga e ripetuta permanenza tra il 1964 e il 1972 all’interno di ospedali psichiatrici, esperienze terribili che la segnarono profondamente. Nonostante il dolore e l’emarginazione subiti che la portarono spesso a sentirsi una “diversa”, Alda riuscì ancora una volta a trovare nella poesia la sua possibilità di redenzione. Gran parte dei testi scritti in questo difficile periodo e nei successivi anni andranno poi a confluire nella raccolta La Terra Santa curata da Maria Corti. Non a caso la Merini è oggi una delle scrittrici più lette e apprezzate anche dai giovani. La sua esistenza, vissuta ai margini della società – nei manicomi, nelle strade della sua amata Milano – hanno fatto di lei una ribelle, un’affascinante donna fuori dagli schemi convenzionali che è diventata modello di libertà e verità d’animo. Una delle sue più grandi doti autoriali è rappresentata dalla facilità e semplicità con cui era solita scrivere i suoi versi. Si racconta che sul finire degli anni Ottanta, presso il bar Chimera in Via Cicco Simonetta, Alda improvvisasse spesso la scrittura di alcuni componimenti – che poi era solita regalare ai ragazzi che incontrava casualmente nel bar – così da rendere un’impresa epica la realizzazione della sua opera omnia, come scherzosamente ricordato da Ambrogio Borsani in un articolo del 2019[3].
L’arte dell’improvvisazione dei versi meriniani stupì anche Franco Loi quando incontrò per la prima volta la poetessa, come da lui stesso ricordato in un articolo nel 1995[4]: si trovava in un caffè quando Nicola Crocetti, Guido Oldani e Maurizio Cucchi gliela fecero conoscere. Fu proprio Crocetti a provocare Alda, chiedendole di scrivere una poesia che potesse sancire il loro incontro. Lei, ovviamente, colse subito la proposta e scrisse una poesia dedicata a Loi e all’amore, e quando lesse l’articolo del poeta milanese su “Il Sole 24 ORE” decise di inviargli un messaggio con una curiosa e spiritosa risposta.
La lettera in questione – che oggi la Biblioteca di Milano dell’Università Cattolica custodisce nel Fondo Franco Loi – è autografata da una «innamorata» (così si firma Alda Merini) che, oltre a ringraziare l’amico Loi per l’articolo a lei dedicato, gli rivolge una curiosa richiesta: «manda via gli operai dalle case dei poeti. Essi non possono scrivere e lavorare, e ascoltare i rumori del loro silenzio con davanti presenze invadenti e continue». La poetessa, infatti, si lamenta dei rumori assordanti che le impediscono di scrivere. Nella parte conclusiva della lettera scrive: «Caro Loi, timido e illustre e un poco bambino come me, che tristezza essere poeti in Italia ed essere asserviti alla giunta municipale».
Anche in quello che può apparire un normalissimo messaggio di risposta, la Merini regala dunque un assaggio del suo stile iconico e inimitabile, dal sapore ironico e dolceamaro, espressione della sua personalità folle ma allo stesso tempo geniale, che ha fatto di lei una delle poetesse più amate del Novecento.
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- A. Merini, Il suono dell’ombra. Poesie e prose 1953-2009, a cura di A. Borsani, Mondadori, 2010, p. 353.
- Poesia italiana contemporanea. 1909-1959, a cura di G. Spagnoletti, Guanda, 1959.
- A. Bersani, “La ricordo una sera, in piedi sulla porta del bar Chimera a distribuire le sue poesie”. Il ricordo di Alda Merini, 10 anni dopo la sua morte, Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2019.
- F. Loi, Una poetessa che sa ascoltare il vento, Il Sole 24 ORE, 26 novembre 1995, p. 26.