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Cent’anni di Italo Calvino, «scoiattolo della penna»

Cent’anni fa nasceva a Cuba il grande scrittore Italo Calvino. Della sua nascita oltremare lui stesso affermerà di conservare solo un «complicato dato anagrafico, un certo bagaglio di memorie familiari e il nome di battesimo»[1]. Sua madre infatti – pensando che sarebbe cresciuto in terra straniera – gli diede quel nome altisonante per non fargli dimenticare della patria dei suoi avi.
Ma, per la fortuna della nostra letteratura, la sua famiglia rientrò in Italia – precisamente a Sanremo cittadina d’origine del padre – quando lui era ancora un bambino. Era il 1925 e sarà proprio nel borgo ligure che Calvino riconoscerà la sua vera patria d’origine.

Figlio di un agronomo e una botanica, intraprese dapprima gli studi presso la facoltà di Agraria, ma la sua vera vocazione era la letteratura. Perciò, dopo la parentesi della guerra e la partecipazione ad un gruppo partigiano, si iscrisse alla facoltà di Lettere di Torino, dove nel 1947 si laureò con una tesi sull’intera opera di Joseph Conrad.
Nel 1946, a soli 23 anni, durante i suoi fulminei studi universitari, Calvino scrive in soli 20 giorni, quello che sarà il suo romanzo d’esordio Il sentiero dei nidi di ragno. Quando viene pubblicato nel 1947 all’interno della collana “I Coralli” di Einaudi, Cesare Pavese, in una recensione pubblicata su “L’Unità”, scrive di lui: «l’astuzia di Calvino, scoiattolo della penna, è stata questa, di arrampicarsi sulle piante, più per gioco che per paura, e osservare la vita partigiana come una favola di bosco, clamorosa, variopinta, diversa»[2].
Fu quindi Pavese a scoprire Calvino, riuscendo a cogliere sin dal primo romanzo quella che sarebbe diventata la caratteristica portante della sua narrativa: raccontare la realtà attraverso una dimensione tendenzialmente fantastica – in questo caso rappresentata dagli occhi di un bambino che guardano e raccontano la guerra civile che consumava l’Italia di quegli anni – dimostrando quanto mutevoli e variegate siano le prospettive dalle quali si può osservare il mondo.  

Da quel momento tutto quello che Calvino scriveva lo faceva leggere a Pavese: tra i due nasce un’amicizia che si consolida ancora di più quando l’autore entra a lavorare in Einaudi e nel 1950 viene assunto definitivamente come redattore. Quell’anno sarà però fatidico per Calvino, segnato dal rammarico di non aver fatto quello che poteva per impedire al suo amico di compiere la drammatica scelta finale: il 27 agosto Cesare Pavese si toglie la vita nella stanza 346 dell’Hotel Roma di Torino, congedandosi con poche parole: «Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene?  Non fate troppi pettegolezzi».
Calvino, insieme ai suoi colleghi di Einaudi, da quel momento cercherà di colmare quel senso di colpa nei confronti dell’amico e maestro scomparso adoperandosi per tutelarne l’eredità letteraria.

Di questo impegno resta un’importante testimonianza in una lettera presente all’interno del Fondo Girardi custodito presso la Biblioteca della sede di Milano dell’Università Cattolica.
È il 25 settembre 1951 quando Calvino, su carta da lettera intestata Einaudi Editore, scrive ad Enzo Noè Girardi, docente di Lingua e letteratura italiana in Università Cattolica, ringraziandolo «per l’acutezza e la serietà della sua ricerca» svolta sull’opera di Pavese[3]:

voglio scriverle a nome anche di altri amici e compagni di lavoro di Pavese, che seguiamo con molto interesse i Suoi scritti sull’opera del nostro Amico scomparso, e La ringraziamo e ci congratuliamo con Lei per l’acutezza e la serietà della Sua ricerca.

A titolo mio personale vorrei dirle che il Suo primo scritto Il mito di Pavese mi sembra una delle esposizioni più approfondite e complete sul difficilissimo nodo di problemi che sta alla base della poetica – e della poesia – pavesiana; e anche, malgrado la distanza delle nostre posizioni ideologiche, mi sembra di condividere molti Suoi giudizi e Sue critiche. Nel secondo saggio La poetica di Pavese, le cose da cui dissento sono invece molte di più, e pure vi trovo ancora alcune osservazioni che mi sembrano preziose.

Girardi aveva infatti pubblicato lo stesso anno due articoli dedicati a Pavese sulla rivista “Vita e Pensiero”, realizzando dapprima un esame contenutistico dell’opera dell’autore piemontese per poi approfondire tale tema focalizzandosi unicamente sulla sua opera poetica.
Meritano attenzione le righe finali della lettera, in cui Calvino sottolinea come, «malgrado la distanza delle nostre posizioni ideologiche», senta importanti alcune osservazioni del docente della Cattolica.
Queste parole denotano altre due doti dello scrittore ligure: l’apertura e l’interesse verso le opinioni altrui, che gli donavano la capacità di accingersi alla lettura di un’opera critica senza quel pregiudizio di fondo che ne avrebbe offuscato il valore effettivo e veritiero del contenuto.

A cent’anni dalla nascita, è possibile quindi ricordare Calvino non solo come uno dei più grandi narratori del Novecento, ma anche come un intellettuale aperto, seppur culturalmente e politicamente impegnato, che ha fatto della sua visione poliedrica del mondo la cifra stilistica dei suoi romanzi e dei suoi saggi.

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  1. E.F. Accrocca, Ritratti su Misura, Sodalizio del libro, Venezia, 1960, p. 111.
  2. La recensione, scritta il 16 ottobre e pubblicata il 26 ottobre 1947, è riportata nel sito ilpiaceredileggere.it.
  3. La lettera di Calvino è stata pubblicata, con il consenso degli eredi, in D. Savio, Tirarsi su le brache da soli. Calvino, Pavese e una lettera inedita a Enzo Noè Girardi, “Testo. Studi di teoria e storia della letteratura e della critica”, 82, 2021, pp. 151-165.

* In alto: foto di Johan Brun, da Wikimedia Commons.