L’editoria italiana del Novecento ha dato vita a una vastissima serie di libri, molti dei quali appartengono a buon diritto alla cultura e alla letteratura del nostro Paese e ne hanno anzi scandito la storia al pari degli eventi che hanno caratterizzato il secolo XX. Vi sono però diversi volumi ai quali la fortuna non ha affatto sorriso: si tratta di testi d’occasione, opere di autori poco noti quando non decisamente sconosciuti, o ancora testi potremmo dire intempestivi, che trattano – per contenuto o per taglio – di argomenti che al momento della loro uscita i lettori hanno quasi del tutto ignorato; oppure, al contrario, libri che freschi di stampa hanno ottenuto ampia accoglienza presso il pubblico ma che hanno scontato quell’immediata fama con un oblio altrettanto rapidamente sopraggiunto. Spesso di questi volumi si conserva ancora qualche copia polverosa nelle biblioteche e oggi, se per caso li adocchiamo sugli scaffali, li consideriamo come esemplari dimenticati o tutt’al più come curiosi testimoni del loro tempo. Eppure, al di là del dato antiquario, possono ancora dirci qualcosa intorno agli autori che li hanno scritti e al mondo che hanno voluto esprimere. Di questi volumi dimenticati vorremmo dare qualche esempio, scegliendo tra quelli che, ospitati nelle collezioni della Biblioteca di Milano, hanno per qualche ragione colpito il nostro interesse, dandone una breve segnalazione in questa rubrica che ci accompagnerà nei mesi della ripresa autunnale.
#6 A.G. Bianchi, “L’incarto di un processo. Romanzo autentico”, con prefazione dell’Avv. C. Nasi (Milano, Baldini & Castoldi 1903)
Per parlare di questo volume di Augusto Guido Bianchi faremo ricorso a un altro libro – o meglio: a una serie di altri libri – più recente e di fama certamente maggiore. Avete presente quei romanzi di Andrea Camilleri in cui l’autore adotta l’espediente narrativo dell’inserzione di documenti (ufficiali o privati) a sostegno della trama? Ci riferiamo a quel folto gruppo di incartamenti d’ufficio, lettere, rapporti, avvisi pubblici, pagine di giornale, ecc. che possiamo trovare in romanzi come La scomparsa di Patò oppure in La concessione del telefono, dove l’uso di tali apparati d’invenzione appare a fondamento della presupposta veridicità storica degli avvenimenti narrati. L’accorgimento è di lunga data. Mettendo da parte i casi, anche autorevolissimi, in cui manoscritti veri o presunti sono alla base della narrazione romanzesca, è stata la letteratura gialla tra gli anni venti e trenta del Novecento a utilizzare la modalità di presentare le prove e gli atti di un’inchiesta nella scansione stessa della trama di un poliziesco. Tuttavia, gli incunaboli di questa forma ibrida di narrazione appartenevano già alla cronaca di taglio giornalistico e, in particolare, a quella letteratura da gazzette che descriveva al pubblico l’avanzamento di processi celebri. Uno dei maestri in questo tipo di giornalismo e, di conseguenza, di questa forma di letteratura è stato proprio Augusto Guido Bianchi (1968-1951), firma tra le più celebri del “Corriere della Sera”, quotidiano dove ricoprì per molti anni l’incarico di cronista giudiziario, seguendo alcuni tra i “casi” più sentiti del tempo, come i processi a Giuseppe Musolino, ad Alberto Olivo, a Tullio Murri e ad Alfred Dreyfus. I suoi articoli furono letti anche da Giovanni Pascoli che ebbe poi modo di conoscere Bianchi quando questi seguiva a Lucca proprio il processo Musolino e di diventare suo amico, come è documentato dal notevole carteggio pubblicato.

In questo Incarto di un processo, Bianchi racconta la storia giudiziaria di un omicidio efferato, ovvero il femminicidio della giovane Angiolina Cappella da parte del fidanzato e amante di lei Marco Soliati. Bianchi ci conduce passo passo attraverso i rapporti dei Carabinieri, le lettere scambiate tra i due giovani, la perizia autoptica, gli interrogatori al Soliati, e così via, proprio come fosse il testo di un romanzo giallo o la sceneggiatura di una fiction. L’ autore, si faccia attenzione, appone il sottotitolo “romanzo autentico”, di fatto invertendo quanto solitamente accade in un’ opera letteraria, dove una vicenda d’invenzione è narrata per verisimile. Qui, al contrario, si tratta di eventi reali – ai quali Bianchi ha cambiato dati anagrafici e topografici in un’ ottica, diremmo oggi, di rispetto della privacy – che sono presentati al lettore come fossero un romanzo: «in questa pubblicazione di mio non c’è che il coraggio o se si vuole la temerarietà, di vestire delle forme tipografiche e delle apparenze del romanzo stampato ciò che abitualmente è destinato a morire negli scaffali polverosi, dopo di essere stato romanzo veramente vissuto. […] poiché di romanzi se ne stampano tanti, poveri di fantasia e poveri di realtà, questo dovrebbe almeno avere per sé più di un’attenuante: quella che la realtà almeno non manca e quella che la mancanza di fantasia vuol essere di questo romanzo autentico il pregio maggiore». Bianchi fu sostenitore dell’antropologia criminale lombrosiana e contribuì alla divulgazione o quantomeno alla sensibilizzazione del grande pubblico verso le questioni dell’antropologia criminale fin da quando tra il 1893 e il 1894 pubblicò con Guglielmo Ferrero e Scipio Sighele Il mondo criminale italiano, volume che si fregiò non a caso della prefazione di Cesare Lombroso.