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2. La Milano della Guerra e della Liberazione

Il giorno in cui l’Italia entrò in guerra, il 10 giugno 1940, era per Franco Loi un normale lunedì: insieme al suo amico Davide Danon e alle loro madri erano andati al cinema Argentina a vedere La mummia con Boris Karloff. Di ritorno, mentre percorrevano il tratto di strada tra Via Pacini e Via Bassini, sentirono una voce provenire dalla radio di un bar: «Italiani, camicie nere, soldati di terra, di mare, dell’aria i nostri ambasciatori hanno consegnato agli ambasciatori di Francia e Gran Bretagna la dichiarazione di guerra!». In un primo momento, tuttavia, la guerra non entrò in modo dirompente nella quotidianità: «Sembrava una cosa lontana, come un film che noi seguivamo attraverso i bollettini di guerra e le cartine».
Il vero cambiamento avvenne il 24 ottobre 1942 quando Milano fu bombardata per la prima volta: «Da quel giorno, la città non esistette più. Le scuole vennero chiuse, molti sfollarono, il pane divenne “pan de resegausc”, pane di segatura e anche peggio; vennero a mancare parecchi generi alimentari, cominciò la borsa nera. Io fui mandato a Colorno da mia nonna Celeste».

(foto conservata nell’Archivio Roberta Grazzani)

Nella memoria di Loi rimase impresso anche l’altro terribile bombardamento subito dalla città, quello del 15 febbraio 1943. Il poeta si trovava su un treno che da Colorno procedeva alla volta di Milano, quando improvvisamente a Melegnano il trasporto fu interrotto, dal finestrino i passeggeri si trovarono ad assistere desolati alla distruzione più totale: «Sembravano fuochi d’artificio quei traccianti che seminavano di frecce rosse la notte, quei bengala che scendevano come palloncini a rischiarare a giorno tutto l’orizzonte, quegli sbuffi bianchi di fumo delle contraeree, e quei rombi lontani che facevano tremare la notte». Poi arrivò il 25 luglio 1943. La deposizione di Mussolini da parte del Gran Consiglio illuse gran parte degli italiani che l’incubo di morte e devastazione stesse per terminare. Ma ben presto fu chiaro che si stava aprendo un nuovo tragico capitolo, la Resistenza e gli anni in cui Milano subì le ferite più profonde: i bombardamenti sempre più feroci e le stragi per mano dei soldati tedeschi. Nella città che ormai era un cumulo di macerie, ci fu un episodio che segnò la vita di Loi ancor di più della «sequenza ininterrotta di case sventrate» e dei «binari dei tram dritti verso il cielo»: la strage di Piazzale Loreto, il 10 agosto 1944.

«I partigiani avevano compiuto un attentato ad un camion tedesco […] Era morto un ufficiale ed era stato ferito gravemente un soldato. I tedeschi pretesero la rappresaglia, e i fascisti prelevarono da San Vittore quindici persone. Scelsero tra la gente che abitava o era conosciuta nella zona. Più tardi venimmo a sapere che tra quei fucilati c’era Libero Temolo, il padre del mio amico Sergio, il mio maestro elementare Principato, il pensionato dei Ramolini, Mastro-domenico, l’ingegner Fogagnolo di Via Pacini. “Hai sentito? Hanno fucilato quindici partigiani a Loreto. Andiamo a vedere. […] Era una giornata di sole splendido.
Oltre la folla, sul marciapiede […] c’erano dei corpi ammonticchiati, qualcuno discosto, con le braccia spalancate e diritte oltre la testa; su quello più esposto sul marciapiede c’era un cartello con la scritta “Banditi”. Fu un’impressione terribile. […] Non potevamo staccarci da quell’orrore. Sembrava che tutt’attorno fosse finto, le case, i militi neri, i morti, perfino noi che insieme con la gente sembravamo figurine d carta. E quel sole del mezzogiorno agostano che vibrava su tutti noi e sui cadaveri. […] Eravamo inchiodati a quella scena di vestiti morti e di scarpe morte che, come ha scritto Vittorini in Uomini e no, parevano più morti dei morti».

Il 25 aprile 1945 Loi, ormai quindicenne, frequentava il primo anno di Ragioneria. Quel giorno stava tornando da scuola in tram quando seppe che uno sciopero generale aveva paralizzato la città semideserta. Una volta giunto in Via Teodosio di fronte al suo portone di casa fu sua madre a dirgli che Milano era ormai in mano ai partigiani. Seguirono giorni in cui tra le vie della città si respirava «come una specie di nevrosi, un’euforia che portava tutti a “fare qualcosa”», la guerra era ormai finita, l’entusiasmo dilagava portando con sé un forte desiderio di giustizia, che in Loi non venne appagato dalla vista dei corpi dei gerarchi appesi in Piazzale Loreto. Quella scena riportò alla memoria il dolore delle vecchie ferite «quei morti diventarono proprio come i nostri morti». Ma grande era, nei giorni della riconquistata libertà, il desiderio di fare festa, di incontrarsi e sorridere, aprendo la speranza al futuro, come Loi scrive nell’Angel.