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«Un’alienazione consapevole»: calcio e poesia in un’intervista a Maurizio Cucchi

«Sono le 22 e 43 minuti del 22 aprile del 2024 l’Inter è campione d’Italia per la ventesima volta nel corso della sua storia leggendaria. La seconda stella è sul petto delle maglie neroazzurre, è finita così nella notte più importante, nella notte che fa la storia, nella notte che decide il destino di questa squadra che ha dominato la stagione in Italia dall’inizio alla fine».

Con queste parole il giornalista Rai Francesco Rapice ha narrato, durante una telecronaca televisiva, il trionfo dell’armata neroazzurra nella notte che, nel corso della stracittadina milanese, ha decretato l’assegnazione dello scudetto all’F.C. Internazionale di Milano.

In queste parole si percepisce l’emozione, il sentimento, l’amore che il tifo calcistico è in grado di generare. D’altronde proprio la derivazione etimologica del termine tifo dal greco typhus: «fumo, vapore, fantasia, febbre con torpore» (cfr. Vocabolario Treccani) sottolinea quella condizione febbrile, folle, di alterazione totale della condizione fisica e mentale a cui il calcio sottopone. Non è solo uno sport, il calcio per molti, è quell’inutile necessario che accompagna la vita di tutti i giorni, quella forma di evasione, di fuga dall’ordinario che fa tornare bambini, che fa credere in un sogno o che può, in taluni casi, trasportare nel più terribile degli incubi. E se pur è vero che chi non tifa potrebbe trovare un pizzico di esagerazione in queste parole, allora con un parallelismo si può provare a spiegare come il tifo per la propria squadra del cuore sia paragonabile ad una lunga, tortuosa e passionale storia d’amore.

Dopo aver parlato per metafore e anafore, ci siamo chiesti allora: come vive lo sport e il tifo calcistico un vero poeta? Lo abbiamo domandato a Maurizio Cucchi, poeta milanese, neroazzurro sin dai bambino, fin dai ricordi più dolci dell’infanzia condivisa con il padre.

Milano, 19 aprile 2024:

Come è nata la sua passione per l’Inter?

Mio papà era interista, tra i ricordi più belli della mia vita ci sono le poche partite che riuscii a vedere con lui, poche perché lui morì nel 1957. Con mio papà eravamo andati insieme allo stadio e per me quella era la cosa più bella. Ho scritto una poesia – in cui si parlava dei calciatori dell’epoca – che poi è diventata la sigla di un programma di Ferretti che si chiamava Anni Azzurri e faceva vedere i giocatori che “salivano” per andare in campo, facendoci contenti, perché in campo non si scende ma si sale!

L’uomo era ancora giovane e indossava
un soprabito grigio molto fine.
Teneva la mano di un bambino
silenzioso e felice.
Il campo era la quiete e l’avventura,
c’erano il kamikaze,
il Nacka, l’apolide e Veleno.
Era la primavera del ’53,
l’inizio della mia memoria.
Luigi Cucchi
era l’immenso orgoglio del mio cuore,
ma forse lui non lo sapeva.

Nominavo Lorenzi, un giocatore toscano che chiamavano “Veleno” perché era piuttosto una malalingua, fu lui che chiamò Boniperti – il grande giocatore della Juve che io ho sempre rispettato – “Marisa”. C’erano dei giocatori di allora che appartenevano ad una realtà molto diversa da quella di oggi in quanto erano come degli degli artisti, non perché il calcio abbia la stessa importanza dell’arte, ma perché nella loro mente fare il calciatore era un modo per uscire da una routine. Una volta un genitore avrebbe detto, per esempio: «fai il ragioniere e non il calciatore», oggi invece è il contrario.

Quale è il suo ricordo più forte legato al calcio e all’Inter? 

La mia prima volta a San Siro: ai tempi era più piccolo e diverso. Io nella mia poesia ’53 racconto di quando andai con mio papà a vedere una partita e avevo sette anni. Quel ricordo è una delle cose più belle che ho nella mia vita legata a mio padre. Mi capitò poi di riandarci a San Siro con mio zio, il fratello di mio papà, che pure era interista. Per me il calcio è sempre stata una forma di divertimento, di alienazione consapevole, un modo per isolarsi, del resto non si può sempre pensare ai massimi sistemi.

Quando l’Inter perde come la prende?

Male, mi dispiace molto; io tendo ad essere fazioso ma abbastanza sportivo, non mi piace vincere rubando. Questa è una caratteristica tipica degli interisti migliori.

Quale è stata la sconfitta dell’Inter per lei più dolorosa?

Mah, non mi ricordo, forse le ho rimosse. Ce ne sono state tante, ma certo due anni fa quando abbiamo regalato lo scudetto al Milan mi sono seccato. Mi ricordo che ero andato a cena fuori il giorno del recupero Bologna-Inter, mi ero portato dietro il telefono. E vedere che in quella partita l’Inter domina il primo tempo, passa in vantaggio, poi subisce un goal nell’unica azione del Bologna, dopodiché nel secondo tempo invece di darci dentro, si affloscia e perde… ecco, lì ci sono rimasto molto male. Lì abbiamo perso lo scudetto e se lo è preso il Milan.

Un altro grande poeta interista è stato Vittorio Sereni, lei in quale occasione lo conobbe?

Mi ricordo che era uscita una traduzione di Raboni del Baudelaire per Mondadori e avevano organizzato una festicciola in casa Mondadori. In quella occasione Raboni, che avevo da poco conosciuto e mi voleva bene, mi aveva fatto l’onore di farmi invitare. Allora, sarà stato il 1971: in quell’occasione vidi per la prima volta Vittorio Sereni, con tutta la mia soggezione e il mio grande rispetto. E poi dopo ho avuto la fortuna di conoscerlo meglio, di averne grande simpatia e stima per la sua umanità. Andavamo allo stadio io, Raboni[1] e Sereni, ero più emozionato e contento di andare con loro più che per il fatto di andare a San Siro a vedere la partita.

Sereni e Raboni come vivevano il calcio?

Sereni era molto convinto e appassionato, ma allo stesso tempo assolutamente controllato. Tra l’altro lui abitava in una casa a circa poche centinaia di metri dallo stadio. Per cui ci si trovava davanti a casa sua con Raboni, che anche aveva abitato in quel palazzo, e poi si andava insieme allo stadio. Sereni mi ricordo che non andava mai al derby perché aveva paura di emozionarsi troppo. Ricordo che in un Inter-Lazio, a cinque minuti dalla fine l’Inter vinceva 3 a 0, la Lazio fa un goal e lui guarda l’orologio come per valutare se ci fosse possibilità di pericolo.

Invece come vive il derby? È la partita più sentita?

Mah, non necessariamente, però devo dire che tra il Milan e la Juventus mi è più antipatica la Juventus. E questo credo sia per tutti gli interisti… è una vecchia storia. Però è chiaro, se gioca Roma-Milan io preferisco la Roma. C’è invece il caso di un altro poeta molto attento al calcio come Milo de Angelis, che, ahimè, è milanista e però, stranamente, se c’è Juve-Napoli, lui tiene la Juve, se c’è Inter-Lazio lui tiene all’Inter.

Per questo derby che ci sarà lunedì come si sente? Ha pensato ad un possibile risultato?

È chiaro che tanto l’Inter il Campionato lo vince, perché per perderlo dovrebbe succedere che l’Inter perde le prossime partite e il Milan le vince tutte, il che è sostanzialmente impossibile. Però è chiaro che nonostante il risultato del derby per la classifica finale sia irrilevante e anche vero che perdere un derby non piace a nessuno.

Invece vincere la seconda stella nel derby come sarebbe, secondo lei?

Ma sì, bello; sarebbe stato più bello però non uscire dalla Champions in quel modo assurdo. Così come l’anno scorso abbiamo perso la finale perché Lukaku ha sbagliato il goal di fronte al portiere. Abbiamo fatto una partita magnifica e abbiamo perso in un modo che si poteva evitare, perlomeno andando almeno ai supplementari.

Il suo malessere dopo una sconfitta così bruciante come quella della finale di Champions quanto dura?

Poco, poi penso alla mia vita, al mondo. Mi capita qualche volta di ritornarci sopra, di giudicare i comportamenti dell’allenatore, dei giocatori, ma così come fanno i bambini nei loro giochi all’oratorio.

Lei da giovanissimo è stato giornalista sportivo, dal 1960-1971, gli anni della grande inter:

Ho fatto il giornalista sportivo fin da ragazzino, c’era un giornale minore di sport che si chiamava Tribuna Sport, io seguivo quindi i dilettanti e mi piaceva perché era divertente, andavo anche a vedere le partite di piccole squadre nei campi di periferia della città. Dopodiché sono entrato come redattore regolare da Sportinformazioni, un’agenzia di stampa sportiva che aveva un notiziario quotidiano portato da un fattorino ai giornali, e poi la domenica si facevano dei servizi su delle partite commissionati dai giornali, che invece di mandare qualcuno di proprio sui campi chiedevano a noi. Questo l’ho fatto appunto fino al 1971, quando poi l’agenzia ha chiuso. In quel periodo non avevo passione alcuna per il calcio, non mi piaceva, non lo seguivo e quando mi capitava di andare anche allo stadio e vedere un giornalista di ciclismo o di automobilismo che era lì per vedere la partita, mi stupivo e mi chiedevo, ma questo qui quando è in vacanza non ha altro da fare che andare allo stadio? Quando sono uscito da lì, l’interesse per lo sport, in particolare per il calcio e il ciclismo, è rinato.

Come mai è rinato il suo interesse per il calcio? C’è qualcosa che lo ha scatenato?

Beh, c’è una cosa della quale mi vergogno. Per un certo periodo c’era una squadra che aveva raccattato gli scarti delle altre società e riusciva a vincere: era la Lazio. Mi pareva bello che l’Inter, il Milan e Juve si liberassero di alcuni giocatori, e loro li prendessero. E con quei giocatori erano risaliti dalla B in A fino a vincere il campionato. In quel periodo lì, mi vergogno a confessarlo, ero diventato tifoso laziale. Sono andato delle volte a San Siro tifando Lazio, poi dopo qualche anno non ne ho potuto più e sono ritornato a casa, contento di averlo fatto e sentendomi più a posto con la coscienza per essere tornato per mano a mio padre.

La poesia è il grande specchio dell’animo umano, ci sta dentro tutto e ci sta dentro anche lo sport, il calcio con i suoi valori e i suoi alti e bassi. Ed è interessante come nel secondo Novecento ci sono stati tanti poeti che hanno raccontato di sport, non solo calcio, ma anche ciclismo. Però il calcio, soprattutto a Milano, catalizza l’attenzione. Poeti che hanno scritto anche di calcio sono Sereni, Raboni, De Angelis: ci racconta di qualcun altro?

Alfonso Gatto per esempio era milanista, però poeti totalmente indifferenti tra quelli che ho conosciuto io era molto difficile, ed io, vista la mia età, ne ho conosciuti tanti di poeti.

Majorino per esempio era un tifoso?

No, per niente, io non ho mai parlato con lui di sport. Antonio Porta invece, per esempio, era interista. Mario Santagostini è juventino, nonostante sia nato a Milano. Di solito sono juventini quelli che abitano un po’ fuori Milano, per esempio in Brianza, e per antipatia dei milanesi – o per invidia – decidono di stare per la squadra più distante dal Milan e dall’Inter. Poi dipende anche dal periodo in cui ci si appassiona a una squadra: nei primi anni 50, quando l’Inter ha vinto lo Scudetto, nel 1952-1953, erano le prime partite che io vedevo dell’Inter. Tra l’altro mi ricordo che la prima partita che andai a vedere con mio padre allo stadio fu la partita di campionato Inter-Novara, perdemmo 1 a 0, ma quello che mi dispiacque di più fu che l’Inter entrò in campo con una maglia di riserva arancione e io rimasi molto male perché mi aspettavo di vedere i colori neroazzurri, ero un bambino. In un tempo in cui andare allo stadio era il modo per vedere la propria squadra, in un tempo in cui il calcio si seguiva con le radioline: c’era la radiocronaca di una sola partita nel corso della quale venivano comunicati le variazioni di risultato delle altre. Poi un’altra differenza tra il calcio di oggi e il calcio di quegli anni è che oggi, quando una squadra grande come l’Inter, il Milan o la Juve gioca con l’ultima in classifica, lo stadio è sempre pieno: allora non era così. Se l’Inter giocava con l’ultima in classifica c’era 1/10 della capienza dello stadio, c’era meno fanatismo. San Siro era anche più piccolo, aveva un solo anello. Io molte partite, non avendo molti soldi, le ho viste proprio nell’ultimo gradino del secondo anello.

Se la ricorda l’ultima volta in cui è stato a San Siro?

Sono passati un po’ di anni, perché c’è stato il Covid. Non mi ricordo che partita fosse, però mi ricordo una cosa spiacevole. Io ero dietro una delle due porte, mi pare al primo anello, e c’erano tutti questi dei club che facevano una baraonda infernale e facevano piovere giù di tutto. Caddero delle cicche che mi bucarono il cappotto, ero rimasto così deluso da questo tipo di tifo che un tempo era inconcepibile. Un tempo si guardava solo la partita allo stadio. Un’altra cosa che mi stupisce molto del calcio di oggi è che il fattore campo non esiste più, il numero di vittorie in casa equivale al numero di vittorie in trasferta, perché il tifo organizzato con il baccano che fa disturba i giocatori della propria squadra e favorisce gli altri che si sentono incitati a reagire. Quindi in questo modo di andare allo stadio e non guardare la partita si riprende un po’ il discorso sulla “mediazione” che io tratto da cinquant’anni. La mediazione che si interpone costantemente tra noi e il reale concreto e di conseguenza ci sottrae a quello che per noi è assolutamente necessario. La mediazione diventa una forma di alienazione, perché io dico sempre di aver bisogno di una fisicità quasi “abrasiva”. Oggi siamo arrivati al momento in cui se uno va a prendere un bicchiere non gode del suo bicchiere, ma gode del fatto che fa una foto e poi lo fa vedere a tutti gli altri. Questa serie di mediazioni non fa più godere della cosa che accade mentre si è lì presente.

È scaramantico nel calcio?

Sì. Se mi ricordo che in quella occasione è successo qualcosa, temo che si ripeta se non è positiva.

Quest’anno in quale momento ha cominciato a pensare che l’Inter avrebbe potuto vincere lo scudetto?

C’è stato quel periodo in cui si facevano tanti goal a partita. Anche perché l’allenatore era riuscito a portare al massimo livello della sua idea lo svolgimento della manovra. Quindi lì ho capito che con attenzione non si poteva non farcela. Devo anche dire che con i mezzi che sarebbe davvero imbarazzante non farcela: non c’è confronto sul piano della rosa della squadra. Mi dispiace che ultimamente l’Inter faccia più fumo che arrosto. Spesso mette insieme un grande gioco ed è come se il goal fosse un optional. Il calcio non è uno spettacolo, il calcio è un gioco e una competizione, il migliore e quello che fa più goal e quello che ne prende di meno. Se non prendi goal, quasi sempre vinci.

C’è un giocatore che preferisce dell’Inter di quest’anno?

Mi piace molto Dimarco, che tra l’altro è milanese di nascita. Lui mi piace anche perché ha un piede magnifico, ha quella classe nel tocco che, insomma, una volta era la prima cosa. Uno invidia i Boniperti o i Sivori, o Baggio perché sono giocatori di gran classe. Di Baggio mi sorprendeva quella straordinaria abilità artistica nel dettaglio, perché in tutte le pratiche la cura del dettaglio è decisiva: la capacità di riuscire con una minuzia a modificare la tessitura. Lo stesso vale in poesia. Io cito sempre un pezzo di Raboni tratto dalla poesia Ponzio Pilato che mi commuove: «Questo sporco catino dove mi lavo le mani». Con questa contrapposizione sottile – dove lavarsi le mani ha anche un altro significato – si vede quanto in poche parole ci sia dentro un significato profondo, la grandezza sta proprio nel dettaglio. Nel calcio quando si vede un giocatore fare un gesto immediato, istintivo (per lui), con il quale riesce a lasciar lì l’uomo e proseguire, andare avanti e con un altro piccolo gesto aspettarsi che la metta di lì e invece la mette da un’altra parte, tutto questo è fantastico.

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  1. Cfr. il recente volume di Giovanni Raboni, Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita. Scritti sul calcio 1979-2004, a cura di Rodolfo Zucco, Milano, Mimesis, 2024.

* In alto: foto da Wikipedia.